INTERVISTA A SIMONE MARCHETTI, L’ANTINOSTALGICO • Camera Nazionale della Moda Italiana

INTERVISTA A SIMONE MARCHETTI, L’ANTINOSTALGICO

INTERVISTA A SIMONE MARCHETTI, L’ANTINOSTALGICO

All’uscita delle sfilate lo si vede con capo chino sul suo iPad e dita sullo screen, mentre i fotografi di streetstyle immortalano i suoi outfit. Simone Marchetti è tra le firme di moda più autorevoli del web: veloce ma preciso, scrupoloso nei dettagli ma anche evocativo. Il liceo classico in collegio, gli studi di estetica all’università, i viaggi e una giovanile esperienza di lavoro al seguito di una compagnia di cantanti lirici  sono le esperienze che lo hanno formato di più, mentre la sua passione per il teatro (a 7 anni la sua prima volta alla Scala dove ha anche lavorato come maschera quando era ventenne) traspare spesso dai suoi articoli. È l’interlocutore ideale per discutere di cambiamenti, già avvenuti o necessari, nell’informazione e nella moda, e la sua storia è un esempio del dinamismo indispensabile per chi lavora in questi due settori che riflettono i tempi.

 

Simone, come è iniziata la tua carriera? Quali sono le tappe che l’hanno scandita?

 

Mi sono avvicinato  al sistema moda entrando da diversi settori: ho iniziato seguendo per otto mesi il responsabile commerciale di Daniela Gerini, una piccola griffe, poi ho iniziato a lavorare per le agenzie di uffici stampa e lì ho scoperto la parte della comunicazione e dei testi, così ho preso confidenza con la scrittura che mi era sempre piaciuta ed Alessandro Calascibetta, allora direttore di “Uomo”,  è stato il primo a darmi la possibilità di scrivere un articolo. Così ho iniziato a lavorare per “Donna moderna”, la scuola di giornalismo migliore che ho avuto: Cipriana Dall’Orto e Patrizia Avoledo sono due donne esigenti e con un grandissimo intuito, da loro ho imparato a fare le didascalie che sono lo scheletro del mio mestiere. Dopo un periodo di  freelancing  Daniela Fedi mi ha dato una grande opportunità facendomi scrivere sulla sezione culturale domenicale de’ “Il giornale”,  poi è stata la volta di “Victim” una rivista indipendente che ho diretto per due anni, finché nel 2006 Michela Gattermayer non mi ha chiamato a “Velvet”: da lei ho imparato a fare caos,coglierne il filo rosso che lega tutte le cose e a trasformarlo in un’idea nuova.

 

Dopo “Velvet” è stata la volta del lavoro sul web, come è avvenuto questo passaggio?          

 

Nel 2008 mi sembrava di stare sul Titanic con l’orchestra che suonava e tutta la gente che ballava, ho sentito che qualcosa non funzionava più, ho preso l’aereo e mi sono ritrovato negli Stati Uniti proprio nel giorno in cui veniva lanciato l’iPhone, l’ho comprato e da quel momento ho capito che il mondo, i giornali e l’informazione erano cambiati. Così ho chiesto di potere scrivere sul web e ho iniziato con “Seidimoda.repubblica.it”: è stato come ricominciare da capo, perfino i miei colleghi erano diffidenti, ma erano loro che non riuscivano a capire il cambiamento e dovevo darmi del tempo per dimostrarlo. Quando è nato il progetto del sito “D.repubblica.it” ho partecipato alla creazione, è un sito interattivo in cui i lettori possono intervenire e completare gli articoli, è navigabile per emozioni e costantemente in evoluzione, a breve subirà nuovi cambiamenti; quando il direttore Ezio Mauro mi ha chiesto di tornare a scrivere su carta ho accettato a patto di proseguire sul web.

 

La velocità oggi domina la moda e il tuo lavoro, non pensi che possa essere un rischio per la qualità?

 

Chi dice che la moda non è veloce non ha capito nulla, il prêt-à-porter è appunto il pronto per essere indossato e l’ha inventato Yves Saint Laurent, oggi esiste il pronto di lusso; non si può vivere nel passato, io detesto la nostalgia, la storia mi interessa per comprendere ciò che accade oggi e ciò che accadrà nel futuro, la moda stessa lo insegna. Quanto all’informazione in Italia si è un filo indietro rispetto al resto del mondo, il mio gruppo editoriale sta facendo delle iniziative molto importanti, “Repubblica.it” e “D.repubblica.it” sono due ottimi laboratori che permettono di  vivere la contemporaneità dell’informazione, nel 2008 il gruppo L'Espresso mi ha dato la possibilità di essere il primo a pubblicare le review delle sfilate dieci minuti dopo la fine dello show.

 

In Italia si discute spesso del ricambio generazionale, che ne pensi?

 

Non credo sia un problema nella moda, tutte le case più importanti sono in mano a nuovi stilisti, giovani non vuol dire ventenni. Ci sono tanti italiani che stanno facendo bene, ma non bisogna idealizzare i giovani perché di grandi talenti nasce uno in ogni decennio . Oggi chi ha una buona idea e trova un produttore ha la chance di crescere  poco alla volta, purtroppo vedo che molti ragazzi o sono concentrati sul passato o non guardano al mercato che invece è aperto più che mai.

 

In un recente articolo hai dichiarato che l’ultima settimana della moda di Milano è stata superiore a quella di Parigi: in cosa ha primeggiato?

 

Qualità, aderenza la mercato, proposte stilistiche, capacità di capire la contemporaneità, capacità di capire il sistema industriale, in ogni caso è sbagliato  paragonare Milano e Parigi che rappresentano tante proposte diverse. La settimana della moda è un sistema industriale che lancia delle proposte e deve avere un contorno adeguato, il punto è che è inutile considerare Milano una capitale, è una città in cui accade un miracolo che si chiama moda.

 

Perché spesso la moda in Italia non è percepita con la serietà che meriterebbe?

 

E’ uno stereotipo culturale italiano, da sempre la moda è stata trattata dalle istituzioni con la mano sinistra, eppure è un sistema intelligente, preparato, serio, competente, investe nelle piccole e medie imprese che sono il cuore della nostra economia e permette anche delle interrelazioni con il teatro, l’ arte contemporanea e la cultura di strada che alti settori non permettono. Le istituzioni devono entrare più in contatto con gli stilisti, credo nel sindaco  Pisapia e nell’assessore Boeri perché penso che storicamente la sinistra milanese sia preparata a questa interazione tra politica, arte, cultura e moda. Quando ero piccolo Trussardi sfilò in piazza Duomo pensando  per la prima volta ad un evento  aperto a tutti che fosse patrimonio della città, all’epoca fu una grande provocazione ed un forte segnale.

 

Da osservatore come ti sembra sia cambiato il rapporto tra le donne e la moda?

 

E’ certamente più giocoso ed interattivo, le donne sono molto più informate e competenti di prima, hanno più buon gusto ed usano tantissimo internet, sanno tutto a proposito di ciò che offre l’e-commerce e cosa viene indossato dalle celebrità.

 

Un tuo articolo che ha fatto discutere e che è stato frainteso da molti puntava l’attenzione sul rapporto tra i blogger e le aziende. Che ne pensi di questo fenomeno e che futuro prospetti per i blogger?

 

In molti casi i blogger stanno diventando i consulenti delle aziende e di fatto fanno i social media editor. Su “D.repubblica.it” collaboriamo già con 6 blogger di cucina e di altri settori e nel futuro ci sarà sempre più interazione con i giornalisti, ma gli sviluppi possibili sono diversi. Dei blogger ho sempre ammirato la capacità di utilizzare i nuovi mezzi, sono stato il primo a parlare di blogger in Italia intervistando Scott Schuman su “Velvet”, ne seguo molti ed in particolare mi piace “Tech crunch” perché la tecnologia è moda, è uno dei pochi ambiti della contemporaneità in cui si sperimenta e che ci sta cambiando, i designer dovrebbero prestare più attenzione a questo fenomeno.

 

Cosa significa essere un giornalista di moda oggi?

 

Chi fa il mio mestiere deve essere mosso dall’umiltà di non saperne mai abbastanza, quest’attitudine ti deve spingere alla fuga assoluta dalla mediocrità e dal giudizio facile. Occorre evitare le polemiche sterili, io devo aprire dei mondi e spiegare che mondi apre un abito, perché da casa non esci indossando una poltrona, ma una  giacca e la giacca definisce la tua vita. Devo essere la voce degli stilisti che si esprimono attraverso le loro creazioni e lo specchio in grado di riflettere i cambiamenti, chi ne rimane fuori è perduto.

 

Hai curato molti progetti sul web: le interviste in esclusiva in collaborazione con l’ “Huffington Post”, con Google Plus, per Zegna, il prossimo?

 

Sto lavorando con Alessio Gerani dell’agenzia AGE ad un mio sito che non sarà un blog, è il frutto del processo di personalizzazione dell’informazione, sarà Simone Marchetti sul web: il lifestyle è morto, oggi bisogna parlare di livestyle, ma non voglio aggiungere di più perché sarà una sorpresa.

 

Andrea Vigneri